I

DAI COMMENTI DEL CINQUECENTO ALL’INCOMPRENSIONE DELL’ETÀ BAROCCA

Poche opere poetiche hanno goduto di un favore e di un entusiasmo cosí spontaneo e generale nella loro epoca come l’Orlando Furioso[1], e se la presenza di altri poemi di argomento simile come l’Innamorato e lo scadentissimo Mambriano poté inizialmente impegnare i lettori del poema ariostesco in paragoni esteriori e in discussioni di costume cavalleresco (si ripresentarono piú tardi all’epoca della polemica sulla Gerusalemme) nella considerazione del Furioso come «elegantissima opera volgare di battaglie» (come è chiamata nel privilegio di Giovan Francesco Gonzaga del 1516), ben presto il capolavoro del primo Cinquecento fu sentito davvero come il poema del secolo, come una potente e piacevole idealizzazione tutta fantastica e concreta del senso della vita rinascimentale con le sue serene e sorridenti nostalgie per un mondo vigoroso e avventuroso, con il suo istinto edonistico ed antiascetico e insieme con il suo mondano idealismo platonizzante, bisognoso di perfezione, ma riscaldato dalla pienezza dell’esperienza. E non v’è dubbio che l’amore del Rinascimento per il Furioso, come per l’espressione piú vera e piena dei propri valori vitali ed estetici, si formò piú facilmente in un momento propizio di gusto non ancora turbato e complicato dall’aristotelismo[2] e sulla via di una concezione della poesia tutt’altro che elementare e volgare, ma, nella sua altezza di comprensione dei valori formali, certamente edonistica. E, alla valutazione edonistica del poema (che corrispondeva anche ad un amore «popolare»[3] per le belle avventure, le fiabe fantastiche e saporite), la saggezza media e poco complicata del poeta, che aveva indicato la poesia come «studio tutto umano» e come adesione alla misura di un tempo e di una umanità non di eccezione[4], sembra voler contribuire lo stesso Ariosto, che nella lettera al doge di Venezia (ottobre 1515) dichiarava di avere «cum mie longe vigilie e fatiche, per spasso e recreatione de’ Signori e persone di animi gentilli e madone, composta una opera in la quale si tratta di cose piacevoli e delectabeli de arme e de amore, e desiderare ponerla in luce per solaço e piacere di qualunche vorà e che se delecterà de legerla»[5].

Un fervido consenso accompagnò il «divino» Ariosto nel periodo rinascimentale prima dell’affermarsi dell’aristotelismo (sono di scarso rilievo alcuni primi dissensi a cui rispondeva il Dolce nella sua Apologia nella edizione Bindoni e Pasini del ’35) ed anche quando la precettistica dei generi e delle unità drammatiche ed epiche, della verisimiglianza e del fine morale venne ad accusare implicitamente il poema «eslege», mancò una vera presa di posizione coerente e battagliera sino alla polemica tassesca. E mentre molto spesso critici, che avrebbero dovuto per le loro idee estetiche attaccare il Furioso, rimasero reticenti o cercarono scappatoie per salvare un capolavoro troppo generalmente amato e certamente sentito da loro stessi come vicino al loro gusto piú istintivo, molto piú sensibile e vivace fu l’esaltazione degli apologisti e dei commentatori, e due critici, il Pigna e il Giraldi[6], trovarono ben presto la giustificazione del Furioso in un nuovo genere di poema romanzesco non contemplato nella Poetica aristotelica e perciò libero dalle regole da quella ricavate. Salvacondotto che sostanzialmente risultò efficace sino alla polemica tassesca, quando, in un momento di evidente squilibrio critico e di partigianeria irragionevole (la posizione piú equanime fu semmai quella di Orazio Ariosto), i difensori del Furioso giunsero addirittura ad esaltarlo utilizzando persino gli argomenti del regolismo che poi nel Seicento i trionfanti avversari del poema torneranno a capovolgere e ad usare con tanto maggior vigore contro quegli esaltatori poco previdenti. E tanto era l’amore del secolo di conciliare le due autorità da far dire al Lasca:

E se potesse Aristotil vedello

lo terrebbe d’Omero assai piú bello.

Naturalmente, se è importante rilevare questa adesione entusiastica del Cinquecento rinascimentale e postrinascimentale, sino alla polemica tassesca, come riprova essenziale della piena storicità del poema, della sua origine dal profondo delle esigenze del secolo, tanto da portare la maggior parte dei letterati del Cinquecento o in un aperto accordo sulla via della poesia come diletto, o ad un’eccezione cosí grave al loro aristotelismo e persino ad un’assurda regolarizzazione del poema («ego te baptizo carpam!») per mantenere la liceità del loro godimento poetico[7], è ovvio che in questa esaltazione quasi unanime (di fronte a cui le critiche son quanto mai meschine e di modesta envergure come quelle di Ortensio Lando nei suoi Paradossi del 1543 e nella Sferza del 1550 – poi ritrattate nella Brieve esortazione allo studio delle lettere – circa le «voci or troppo umili or troppo aspre»[8]), manca la possibilità di un vero distacco critico. E il giudizio dei commentatori cinquecenteschi, là dove supera il semplice elogio, si riduce per lo piú ad una costatazione tesaurizzatrice delle «bellezze» del poema, sentito e misurato come un’opera perfetta ed esemplare, o ad una specie di ricognizione reverente ed ammirata, che tende semmai a rilievi stilistici e linguistici dentro le accennate giustificazioni e gli accordi con le teorie critiche pseudoaristoteliche.

Eppure il «commento» del Cinquecento (a parte la sua importanza per la conoscenza di dati di fatto[9] e per il gusto e il pensiero estetico del secolo) vale come essenziale presa di contatto con il poema, come solida base di lettura, dentro cui certe osservazioni valgono come prime indicazioni di alcune linee della poesia ariostesca e proprio di quelle che sono piú coerenti alla capacità di rappresentare poeticamente il proprio tempo e quei profondi motivi che continuano a vivere, anche se contraddetti teoricamente, assai a lungo nel secolo.

Cosí, in mezzo all’erudizione adibita spesso pedantescamente a spiegare il poema come se si trattasse di un trattato storico-geografico, il lettore non frettoloso può rilevare una consapevolezza dell’ordine interno del poema, non posto in discussione come avverrà nella polemica tassesca e nel Seicento, della sua essenziale armonia costruttiva; una generale ammirazione per la ricchezza di esperienza sentimentale e di vita degli affetti senza eccessiva insistenza sulla coerenza drammatica dei personaggi su cui punterà piú tardi una parte della critica, e, nella quasi totale mancanza di un esplicito rilievo alla aperta comicità e al «riso» (e non diciamo ironia che è motivo della critica romantica), un’attenzione alla «piacevolezza» non mai disgiunta da saggezza ed esperienza. Come quando il Toscanella lo chiama «universalissimo» nel rappresentare le usanze di tutti e i caratteri piú svariati adombrando il senso di esperienza larga e concreta del poeta, o quando lo stesso commentatore dice che «l’Ariosto ebbe l’occhio acuto in ogni cosa»[10], sottolineando quello che il Conti chiamerà «particolareggiamento» e il controllo fortissimo nel volo piú alto della fantasia. E certamente, nel rilievo piú di una acuta e gustosa saggezza che non di ironia dissolutrice del passato, vi è un’indicazione importante per la critica moderna a meglio storicizzare, dopo gli approfondimenti e i travestimenti romantici, l’impressione del cosiddetto sorriso ariostesco, a sentirlo soprattutto come segno di una superiorità di equilibrio in una serena e complessa esperienza della vita, che non esclude un pessimismo («in questa assai piú oscura che serena / vita mortal tutta d’invidia piena [...]»), funzionale ad una superiore, posseduta armonia.

Ma l’attenzione maggiore dei commentatori va naturalmente alla lingua poetica, in cui si esprime quel mondo da essi poco scavato nei suoi accordi piú profondi, e per lo piú con un’intenzione (come dice il Toscanella) di ricavarne «bellezze», di «fare acquisti dell’arte poetica».

Cosí Simon Fornari[11] nella sua Spositione sopra l’Orlando Furioso (Firenze, 1549) indaga la particolare «dolcezza» della lingua ariostesca, del suo incanto di «vago ed elegante»: dolcezza raffinata che per lui corrisponde al «temperamento medio del poema»[12] e che si rivela piú vistosamente nella formazione di nuove parole «senza l’asprezza» di un altro creatore, Dante[13], e nel modo con cui l’artista domina e trasforma gustosamente con «desinenza piacevole» le parole straniere[14].

Cosí altri commentatori, mentre insistono sulla naturalezza e l’evidenza di rappresentazione («Et pinge una cosa cosí bene, / che ti pare d’averla avanti gli occhi»[15]), esaltano la proprietà ed efficacia della sua espressione con pedantesca ricerca tutta retorica, come il Ruscelli[16] che fa osservazioni tutte basate sulla «convenienza», ma anche con vivacità e sensibilità come il Pigna nei suoi Romanzi già citati.

Negli «Scontri dei luoghi, i quali l’Ariosto mutò», il Pigna, sensibile alle qualità di evidenza e di distinzione pittorica («Le bellezze d’Olimpia son con maggiore vivacità dipinte che se con colori lineati fussero e sono larghissimamente trattate, benché prima su quelle di Alcina assai disteso si sia il parlare. Ed anche questi due luoghi c’hanno un istesso soggetto sono molto vicini e tanto l’uno alla perfezione riguarda quanto l’altro. E quello che è stupendo, è la diversità grandissima nell’uno e nell’altro»[17]), pieno di un’ammirazione viva e pittoresca («Ed ove soffiar vento bisogna o tonare o discendere acqua dal cielo o lampeggiare, è benissimo a tutto ciò apparecchiato»[18]), mostra un’esigenza che solo il Novecento riprenderà con diversa coscienza critica: lo studio delle correzioni e delle redazioni del poema.

Sensibile e fine, ricco di perizia letteraria, il Pigna vede naturalmente troppo il lato impersonale delle correzioni senza riportarle a una chiara volontà costruttiva unitaria. E molto spesso spiega solo col criterio della chiarezza (il poema fatto per dotti ed indotti), ma altre volte si fa acuto indagatore e se rimprovera l’Ariosto di aver preferito eufonia a popolarità e convenienza (vedi l’esempio XXXIV:

con quella rabbia contro il lor signore

con quella rabbia contro a quel signore,

«Da questa parte si può comprendere che alle volte lo star troppo s’una minuzia fa guastar la proprietà di cosa»[19]), sa anche sottolineare la cura ariostesca di armonia e musica. Cosí all’esempio LXXVIII:

Che con pallido viso asciutto e scarno

la notte e ’l giorno vi picchiaro indarno.

«Una desinenza che sia nel corso del verso e che alquanto s’assimigli alla rima, fa sovente maggior dissonanza che se fosse desinenza in tutto simile ad essa rima, e perciò in questo secondo verso rispondendo orno ad arno s’è fatta una cacofonia. È perciò spiegato questo soggetto in quest’altra maniera:

che con pallido viso e magro e asciutto

la notte e ’l dí vi picchia senza frutto»[20].

Attenzione alla cura musicale del poeta, che, pur nei suoi limiti di studio troppo esterno ed astratto dal concreto fare ariostesco, indica un indirizzo che troppo poco i moderni hanno svolto con nuova coscienza dello stile e della sua tutta interna giustificazione poetica.

Il Pigna rappresenta, nei limiti evidenti di una lettura senza vero distacco critico e senza possibilità e pretesa di interpretazione unitaria e centrale (che si presenta realmente solo con la critica romantica), l’accettazione piú sensibile ed acuta del poema da parte della critica cinquecentesca, che mantiene in lui una sostanziale esigenza di diretta fruizione dell’opera d’arte, in mezzo alle crescenti preoccupazioni teoriche, importanti nello svolgimento del pensiero estetico, ma quasi sempre in quell’epoca piú vive come ostacoli che come mezzo di comprensione della poesia realizzata.

L’amore del secolo per il Furioso seguitò poi a resistere sia pure in contrasto con l’affermato aristotelismo, finché la polemica sorta intorno alla Gerusalemme Liberata, mentre provocò lo sfogo piú esuberante ed isterico dell’ammirazione per il poema ariostesco, lodato dai cruscanti per la sua purezza linguistica, per la sua perfetta costruzione e magari persino per la sua regolarità, in odio al Tasso, rappresentò anche l’effettiva conclusione di una fase di accettazione piena e l’inizio di una discussione da cui il Furioso non poteva alla lunga non uscire diminuito di fronte ai criteri retorici con cui invano i suoi difensori piú accaniti tentarono di giustificarlo.

In quel documento interessante di storia letteraria «per polemiche», che è la Apologia in difesa della sua Gierusalemme Liberata[21], con le accuse e le difese del Goffredo e dell’Orlando, la grandezza di quest’ultimo è affermata per lo piú in maniera sofistica aderendo a quei criteri pseudoaristotelici che alla fine dovevano inevitabilmente provocare una generale condanna del poema e dar vittoria ai tassisti[22].

La difesa dei cruscanti che regolarizza tutto (una sola azione mediante la comoda formula: una tela con piú fila) e che si appoggia alla testimonianza unanime del secolo (il numero grande delle traduzioni è «segno che è piaciuto all’universale»[23]), o il Parere del Patrizi in cui si arriva ad attaccare Omero per difendere Ariosto e per dimostrare che «non ha contraffatto gli aristotelici insegnamenti»[24], o la difesa di Orazio Ariosto che assicura l’esistenza delle allegorie nel Furioso[25], urtavano però nel nuovo gusto di decoro retorico, di solennità senza sorriso cui molto meglio rispondeva la Gerusalemme.

E le accuse di Camillo Pellegrino all’Orlando, di non essere poema epico per due ragioni («L’una s’è che quel poema non ha un’azione sola sí come il perfetto Eroico si richiede e l’altra che egli è pieno di indignazione perenne e vile»[26]), alla lunga dovevano trovare accettazione nel Seicento che, pur movendo verso nuove esigenze estetiche, riprendeva la pedantesca regolarità del secondo Cinquecento, il piatto gusto del verosimile, e lo fecero reagire contro l’Orlando, mentre i motivi piú profondi del nuovo secolo trovavano soddisfazione, dopo la vana censura, nel Tasso, nei suoi toni di elegia sensuale e malinconica, di eroica dignità e di declamazione solenne e immaginosa.

Unica vera eco del piú schietto amore rinascimentale, tra la fine del secolo e il Seicento, sono i giudizi di Galileo. L’amore appassionato del grande scienziato è un chiaro indice anche della trama di acuta intelligenza che regge la libertà della fantasia ariostesca, del rigore e del calcolo che l’Ariosto adibiva alla sua costruzione pur cosí naturale, concreta e perciò stesso amata in contrapposizione all’artificio seicentesco e presecentesco del Tasso, che appariva a Galileo anche meschino e senza magnificenza:

Mi è sempre parso e pare che questo poeta sia nelle sue invenzioni oltre tutti i termini gretto, povero e miserabile; e all’opposto, l’Ariosto magnifico, ricco e nobile: e quando mi volgo a considerare i cavalieri con le loro azioni e avvenimenti, come anche tutte l’altre favolette di questo poema, parmi giusto d’entrare in uno studietto di qualche ometto curioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano, o per antichità o per rarità, o per altro, del pellegrino, ma che però sieno in effetto coselline, avendosi, come saria a dire, un granchio petrificato, un camaleonte secco, una mosca e un ragno in gelatina in un pezzo d’ambra, alcuni di quei fantoccini di terra che dicono trovarsi nei sepolcri antichi d’Egitto, e cosí in materia di pittura, qualche schizzetto di Baccio Bandinelli o del Parmigianino e mille altre cosette; ma all’incontro, quando entro nel Furioso veggo aprirsi una guardaroba, una tribuna, una galleria regia, ornata di cento statue antiche de’ piú celebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori, di pittori illustri, con un numero grande di vasi, di cristalli, d’agate, di lapislazzari e d’altre gioie e finalmente ripiena di cose rare, preziose, maravigliose, e di tutta eccellenza[27].

Ma dentro questo amore ancora rinascimentale non si può poi dire che la conoscenza del poema da parte di Galileo porti qualche preciso interesse, tutta volta com’è al minuto godimento e alla tesaurizzazione delle bellezze (sentenze, paragoni ecc. che costituiscono le Postille al Furioso), alla svalutazione, per contrapposti su simili argomenti, della Gerusalemme (Le considerazioni al Tasso), o presa quasi realisticamente dalla evidenza e varietà fantastica ariostesca (viva in figure labili e fungibili musicalmente) come da un mondo di personaggi realizzanti psicologie diverse e fine a se stessi:

La osservazione poi del costume è veramente maravigliosa nell’Ariosto. Quali e quante e quanto differenti sono le bizarrie che dipingono Marfisa temeraria e nulla curante di qual altra persona esser si voglia! quanto è ben rappresentata l’audacia e la generosità di Mandricardo! quante sono le prove del valore, della cortesia e della grandezza d’animo di Ruggero! Che diremo della fede, della costanza e della castità di Isabella, d’Olimpia, di Drusilla, e all’incontro della perfidia e infedeltà di Gabrina e della instabilità di Doralice[28]!

Dove c’è una indubbia forma di avvicinamento alla vastità della fantasia ariostesca, alla sua natura non egocentrica e sentimentale, capace di un disegno vasto e vario, di un mondo di sentimenti complessi e ben individuati, ma sulla limitata direzione dei personaggi, che tanta parte ha avuto nelle deviazioni del problema critico dell’Orlando.

Il Seicento non amò l’Orlando e la prima prova piú esterna ci è data dal rapido calare delle edizioni e ristampe, che dopo le 154 del Cinquecento scendono a 31 e precisamente a sole 7 dal 1630 al 1679, dopo il quale anno nessuna ne esce fino al 1713[29]. L’Orlando apparve lontano, forse «gretto e povero» per applicargli le espressioni usate dal Galilei per il Tasso, ed anche chi, come il Boccalini, reagiva agli eccessi del concettismo ed alla pedanteria accademica, trovava nella Gerusalemme un testo pieno di «buon gusto» e d’altronde non troppo in contrasto con il fondo essenziale del suo secolo.

Il Tasso autorizzava i barocchi al loro gusto ben piú delle rare metafore ariostesche fra madrigalesche e sorridenti (ad esempio, le due strofe 126-127 del XXIII), e d’altra parte serviva anche ai moderati che lo potevano considerare un padre incorrotto di corrotti figli.

«Le stesse serenissime muse rimasero meravigliate come dalla spensa di quel fecondissimo ingegno abbia potuto cavare l’inesausta moltitudine di tanti elegantissimi concetti, conditi con le piú eleganti frasi e modi soavissimi di dire»[30].

Tale frase del Boccalini assicura il posto assegnato al Tasso dalle varie correnti del Seicento e implica la scomparsa dell’egemonia dell’Orlando, che non godé piú neppure l’amore degli accademici, volti a studiare piuttosto Petrarca e Tasso e semmai Dante, malgrado gli attacchi di Paolo Beni e la generale incomprensione di quella grande poesia. L’Orlando poteva rimanere modello del cosiddetto poema romanzesco, ma pure in quel caso il Tasso offriva piuttosto il Rinaldo, ed anche dagli antimarinisti di maniera il poema ariostesco veniva considerato in una posizione di assoluta inferiorità rispetto alla Gerusalemme. «Essendo il Goffredo composto nel primo grado dell’altezza e il Furioso nel terzo, e veggendo io nella nostra lingua disoccupato il secondo, il quale è senza dubbio il migliore [...] l’ho occupato non solo per schifare l’oscurità del Goffredo e le bassezze del Furioso, ma per poter anche partecipare la gravità dell’uno e la chiarezza dell’altro», dice Tommaso Stigliani, parlando del suo Mondo Nuovo, ed è evidente che la «chiarezza» non era certo la qualità superiore a cui il Seicento aspirasse.

E come il Cinquecento antitassesco aveva giustificato l’Orlando anche a costo di chiudere gli occhi di fronte alla sua disformità dagli ideali regolistici, cosí il Seicento accusa l’Ariosto con poche riserve e rarissime eccezioni, in puntigliosa polemica con le lodi del secolo precedente, come si può ampiamente documentare con i Proginnasmi poetici di Udeno Nisiely (pseudonimo di Benedetto Fioretti[31]) che sono un continuo attacco dell’Ariosto sia per il suo disprezzo del «decoro osservabile secondo le persone»[32], sia per «comparazioni viziose» o per «viltà di locuzione»: attacchi che sfruttano i commentatori cinquecenteschi e li colpiscono ferocemente proprio servendosi in gran parte dei loro stessi criteri aristotelici contro le loro incoerenti giustificazioni dell’amato poeta, con quell’insieme di razionalistica e sofistica pedanteria erudita e di bizzarria concettistica che è tipica della critica secentesca.

«Sconvenienze», «errori» che ripresentano ai danni dell’Ariosto il piú fanatico e pedantesco contenutismo di origine cinquecentesca, tanto adoperato prima contro il Tasso. E ne diamo un unico esempio sufficiente:

Egli [Zerbino] ritrovate alla foresta l’arme e l’armatura di Orlando suo amicissimo e benefattore, armi di tanta fama, armi di tanto valore, le appende a un pino: e perché niuno le usurpasse, vi scrive che sono di Orlando. Quanto era meglio, e piú degno di lui, mandarle in Parigi, e dar nuova dell’atrocissimo avvenimento del Paladino. Potevano i malandrini rubarle, e in paesi stranieri venderle, poteano per odio e per invidia esser guaste o sepolte per sempre, ecc.[33]

In questo smantellamento generale della esaltazione cinquecentesca (appoggiata a un forte senso del valore dell’Orlando, ma sfasata quanto a travestimento e regolarizzazione del poema, in cui le direzioni essenziali del secolo precedevano però la propria mortificazione critica e regolistica) vengono colpite la irreligiosità ariostesca[34] e la sua sconvenienza morale:

Lodovico Ariosto sembra poeta piú di Venere che delle Muse nel suo poema; perocché ora con favole, ora con invenzioni, ora con concetti si ribella dalla maestà di Apollo e milita sotto Cupido[35].

Irreligioso, empio, immorale, l’Ariosto viene anche accusato di rompere il decoro della poesia per concessioni plebee contrarie alla natura del poema epico che «non è per la gente volgare ma per gli uomini d’alto affare: e però di argomenti e di locuzione[36] si è sublimissimo»; donde le ire per avere introdotto negli episodi osceni persone regie «per far piú atroce la caduta del decoro»[37].

E cosí sono definitivamente provate in quel cerchio di idee la sconvenienza cavalleresca[38] di molti personaggi ariosteschi, le «smemoraggini» e le inavvertenze:

L’Ariosto, buona memoria, fu d’infelice memoria nel suo poema in molti luoghi […]. E nel c. 40, strofa 73 produce vivi il re di Nasamona, Bambirago, Agricalte e Balastro, i quali nel c. 16 avea fatti uccidere in guerra. Vedete gran forza della memoria dell’Ariosto; la quale fa morire e risuscitare gli uomini[39].

Strana cosmografia, essendo il medesimo luogo or valle, or poggio. Siccome nel c. 14, strofa 64 e c. 23 strofa 67, lascia Mandricardo e Doralice sopra un fiume, il quale al ripigliar del filo storico, si vede poi un fonte. Mi vergogno quivi della difesa del Ruscelli e l’affogo nella penna[40].

E certo nel «labirinto» di quel contenutismo e razionalismo pedantesco l’affanno dei cinquecenteschi aristotelici di giustificare il Furioso ad ogni costo era piú ridicolo della accuse dei barocchi. In questi contrasti era l’indice di una diversa via d’uscita sul piano nuovo, assoluto dell’arte, dove spazio e tempo assumono proporzioni tutte loro e tutte basate su di un ritmo interno ora rapido or lento per pura esigenza di fantasia[41]. E l’osservazione del Fioretti circa l’incoerenza e discontinuità dei personaggi ariosteschi[42] di fronte a possibili difese della loro drammatica vitalità sul piano della verisimiglianza pedantesca su cui il polemista barocco e gli ultimi difensori si muovevano ugualmente, è una riprova di piú di come la vita delle figure ariostesche non vada cercata altrimenti che nella loro funzionalità rispetto allo svolgersi delle vicende fantastiche e del loro ritmo.

Ma anche l’ipercritico Nisiely, che arrivava persino a condannare nell’Ariosto un presunto abuso di metafore, che era il fiore del gusto secentesco[43], sentiva poi la bellezza della pazzia d’Orlando e notava le «incidenze affettuose» dell’Ariosto[44] staccando dal poema due fra le ottave piú alte: proprio quelle che fecero esclamare al De Sanctis: «Quanto cuore aveva l’Ariosto!».

E della Pazzia d’Orlando finiva per fare un’esaltazione[45] che lega questa posizione polemica barocca (che nel suo negare smontava e mostrava la vuotezza problematica del razionalismo pseudoaristotelico) alla nuova ammirazione settecentesca, che nella sua media di gusto è ben rappresentata da una pagina ugualmente commossa e spavalda del Casanova:

Se la memoria mi dice il vero, credo di aver riletta la Pazzia d’Orlando nell’Ariosto cento volte. E sempre in leggendola m’innamoravo di questo episodio, piango di pietà e instupidisco di maraviglia, considerando la cagione, l’invenzione, l’affetto, il costume che il poeta con ingegno divino quivi ha ritratto al naturale sopra ogni credere e potere umano. Che Sofocle di Ajace? che Euripide, che Seneca d’Alcide? [...]

Orlando impazza per cagion di amore, affetto potentissimo, affetto naturale, azione rappresentata per man della Natura; piú che per forza dell’arte; sicché non pure vi è il verisimile, ma si vede, e si palpa sensibilmente la verità stessa, non solamente per la energia della locuzione, per la vivezza dei concetti, ma per l’artifiziosità squisitissima della invenzione. Orlando è principe; è di stirpe reale; è il piú forte cavaliere dell’età sua; ama svisceratamente Angelica, è amante fedele, e antico; per lei abbandona la casa, la patria, lo stato, il regno di Francia, e il zio e Re Carlo in tempo di guerra e di pericoli importantissimi a tutta la cristianità; pone a sbaraglio la vita in mille battaglie o per comandamento o per salvezza dell’amata: fece insomma Orlando per amor di Angelica quanto Alcide per amor di Giunone. Ed ella è Regina, e bellissima, è idolo dei guerrieri del mondo; s’accende vilissimamente di un povero fante; non basta; gli si dà in preda; piú innanzi, va trombando la indignità del fatto in mille guise; facendone memoria nelle piante, nelle pietre, nelle mura; quasi vanagloriandosi della sua gagliofferia per dispregio di tanti e tali suoi amatori. Accozzate insieme sí atroci circostanze quasi altrettanti mostri di procedere umano, conviene che all’amante Orlando ne scoppi alcun prodigio mostruosissimo, che darà la Pazzia[46].

Criterio e deformazione secentesca anche in questo caso, ma anche preannuncio, in mezzo ad una incomprensione cosí generale e cosí battagliera (risoluzione d’altra parte dell’equivoca giustificazione del regolismo cruscante dell’ultimo Cinquecento), di un modo di avvicinare il Furioso attraverso il «patetico», l’«affettuoso» e il «naturale» che nel Settecento si affermerà in una piú larga ed aperta lettura piena di simpatia per l’«estro» inventivo, per il «brio», per l’evidenza figurativa e l’amabile scherzo che gli uomini del «rococò» potevano sentire nel grande poema[47].


1 Sulla diffusione e sulla sorte del Furioso nel Cinquecento essenziale il volume di G. Fumagalli, La fortuna dell’Orlando Furioso in Italia nel secolo XVI (Ferrara, Zuffi, 1912). Notizie ed osservazioni sulla fortuna del poema e sui giudizi dei letterati cinquecenteschi si trovano anche nel saggio di A. Scolari, L’Orlando Furioso e la critica del secolo XVI, in Scritti di varia letteratura e di critica (Bologna, Zanichelli, 1937); in C. Trabalza, La critica letteraria (Milano, Vallardi, 1915, vol. II); in F. Foffano, Il poema cavalleresco (Milano, Vallardi, s.d.).

2 La Poetica aristotelica fu pubblicata nel testo greco dal Trincaveli solo nel 1536, ed in quell’anno fu tradotta dal Pazzi in latino, e commentata nella Poetica del Daniello.

3 Circa la popolarità del Furioso si deve osservare che l’iniziale diffusione del poema ebbe luogo nelle corti e in ambienti altamente letterari e raffinati e che (a parte l’irosa frase del Trissino, spiegabile soprattutto come espressione di dispetto di un letterato fallito non solo di fronte al «vulgo», ma anche di fronte ai lettori piú provveduti) la diffusione fra il popolo artigiano e campagnolo testimoniata dalle edizioni «popolari» e dalle versioni in dialetto (secondo quanto aveva già osservato il Foffano) non superò anch’essa i limiti cronologici del piú generale amore per il poema, e piú tardi le ottave dell’Ariosto furono sostituite da quelle del Tasso sulla bocca dei contadini o dei gondolieri veneziani da cui le sentí ancora cantare il Goethe. Quando le corti e i letterati non amarono piú il Furioso, non lo amò piú neppure il «popolo». Anzi sembra giusto quanto il Foffano (che notò come traduzioni in dialetto e rifacimenti «non sono opera di poeti popolari, ma di dilettanti di lettere che pretendono di imitare il Berni») afferma: «Del resto cotesta popolarità, se veramente l’ebbe l’opera ariostesca, per le mutate condizioni sociali le venne via via mancando. Non le mancò mai invece una, diciamo cosí, popolarità letteraria» (Il poema cavalleresco cit., p. 110).

4 È la dichiarazione della Satira VI al Bembo, in cui l’Ariosto esprime cosí bene la sua volontà di essere a contatto con «l’altra gente», di esprimere – pur nella sua coscienza del proprio sogno poetico e della altezza eccezionale della propria arte (poeta, in questo senso, tutt’altro che «ingenuo») – sentimenti vivi in un tempo ed in una società profondamente «normale» e compatta.

5 E il Sadoleto, nel privilegio inviato da Leone X per la prima edizione, echeggiava: «quamobrem cum libros vernaculo sermone et carmine, quos Orlandi Furiosi titulo inscripsisti, ludicro more, longo tamen studio et cogitatione multisque vigiliis confeceris».

6 G.B. Pigna, I romanzi, Venezia, Valgrisi, 1554; G.B. Giraldi Cintio, Discorsi intorno al comporre dei romanzi, Venezia, Giolito, 1554.

7 Tanto che (a parte i piú tardivi travestimenti «spirituali» simili a quelli già attuati per il Petrarca, come quello di Goro da Collalto, Il primo canto dell’Ariosto translato in ispirituale, Firenze, Francesco Tosi, 1589), al di là della «bontà» e «saggezza» rilevata nelle prime biografie dalle note del figlio Virginio in poi, si cercò di trovare nel Furioso un valore di insegnamento morale e persino religioso, come fece il Fornari (cito dalle Allusioni premesse all’edizione Valvassori, Venezia, 1553): «Ricorrete dunque alla mirabile dottrina di questo gran poeta cristiano, che io so ben dire ch’egli vi agevolerà l’erto sentiero de’ sacri misteri, sollevandovi con infinite sue moralità». E nella Prefazione dell’ed. Valvassori del ’56, p. 3, il Furioso è contrapposto ai poemi antichi per il suo valore religioso e morale: «Ma qui un solo Iddio, eterno, giusto e immutabile [...] qui si castigano i commessi peccati e si guiderdonano i beni [...] qui si vede quanto siano brevi l’umane allegrezze e infinite le miserie».

8 L’inserimento del Furioso accanto ai capolavori delle «tre corone» come testo di lingua poetica fu rapidissimo e già nel 1536 Fabrizio Luna pubblicava a Napoli il suo Vocabulario di 5000 vocabuli toschi non meno oscuri che utili e necessari del Furioso, del Bocaccio, Petrarcha e Dante.

9 Anche la ricerca delle «fonti» soprattutto nella poesia greca e latina (che era poi un modo di nobilitare classicisticamente l’autore amato) si inizia in questi commenti, primo quello di Fausto da Longiano nella ed. Pasini e Bindoni del 1542 (e notevoli le Osservazioni sopra il Furioso di A. Lavezuola nella ed. del Furioso, Venezia, Pietro de’ Franceschi, 1584).

10 Bellezze del Furioso di Ludovico Ariosto scelte da Orazio Toscanella, Venezia, Pietro de’ Franceschi, 1574, p. 218.

11 Su questo commentatore si veda il lavoro di L. Furnari, S. Fornari, primo spositore dell’Orlando Furioso, Reggio Calabria, Morello, 1897.

12 Simon Fornari, Spositione sopra l’Orlando Furioso, Firenze, Torrentino, 1549, p. 341.

13 Ivi, p. 116.

14 Ivi, p. 228.

15 Nel capitolo attribuito al Doni nelle Rime piacevoli del Ruscelli, Vicenza, Barezzi, 1603.

16 Orlando Furioso con le annotazioni, gli avvertimenti e le dichiarazioni di G. Ruscelli, Venezia, Valgrisi, 1558.

17 Nei Romanzi cit., p. 102.

18 Ivi, pp. 101-102.

19 Ivi, p. 141.

20 Ivi, pp. 163-164.

21 Ferrara, Cagnacini, 1585.

22 Il Serassi (Vita di T. Tasso, Roma, Pagliarini, 1785, p. 349) notava per tutti le contraddizioni del Salviati: «E veramente il pretendere che il Furioso sia un regolato poema epico, e di una sola azione, come si sforzò di provare il Salviati, fu non solo uno stranissimo paradosso, ma un contravvenire eziandio manifestamente al giudizio dell’Ariosto medesimo, il quale in piú luoghi del suo poema fa professione di cantare in un tempo stesso diverse imprese».

23 Apologia in difesa della sua Gierusalemme cit., p. 27.

24 Ivi, p. 186.

25 Ivi, p. 211.

26 Ivi, p. 185.

27 Galileo, Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Firenze, Le Monnier, 1943, pp. 358-359.

28 Galileo, Lettera a F. Rinuccini, 19 maggio 1640, in Scritti letterari cit., pp. 358-359.

29 G. Agnelli e G. Ravegnani, Annali delle edizioni ariostee, Bologna, Zanichelli, 1933.

30 T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso, Bari, Laterza, 1910, vol. I, pp. 208-209. Il Boccalini ricorda sí una volta l’Ariosto insieme col Tasso come «lumi risplendentissimi della poesia italiana» (vol. I, p. 85), ma in generale accenna a lui ironicamente (vol. I, p. 207; vol. III, p. 165) o lo valuta soprattutto come poeta satirico (vol. I, p. 212), tanto da far di lui e del Berni i «capitani di due legioni di poeti veterani nella maldicenza» (vol. I, p. 255; vol. I, p. 306). Cosí in parte il Beni su cui vedi in seguito, e il Tassoni che nei Pensieri diversi (Venezia, Marc’Antonio Brogiolo, 1636) unisce Tasso e Ariosto come «sovrani lumi della lingua» superiori agli antichi e difende, con molte riserve, l’unità della favola nell’Orlando Furioso.

31 Cito dalla seconda edizione (Firenze, Matini, 1695) a cura del Salvini. La prima uscí dal 1620 al 1639.

32 Ivi, vol. V, p. 115.

33 Ivi, vol. V, p. 131.

34 Ivi, vol. III, pp. 163-166.

35 Ivi, vol. IV, p. 310.

36 Anche per la lingua il Fioretti, che pure era un fautore della Crusca, attacca l’Ariosto («barbarismi e solecismi») mentre ugualmente l’anticruscante Paolo Beni fa grandi elogi del Tasso superiore a Virgilio ed Omero (L’Anticrusca, Padova, Martini, 1613, p. 85), e osserva un significativo silenzio per l’Ariosto. Ma nei Discorsi dieci. Comparationi di Torquato Tasso Homero e Virgilio con la difesa dell’Ariosto (Padova, Martini, 1612) il Beni, nella sua polemica antiomerica, dedica due dei suoi dieci discorsi ad una difesa dell’Ariosto (interessantissimo è nelle pp. 246-250 il riassunto delle infinite accuse del tempo contro il poema). In realtà questa difesa, minuziosa e pedantesca nel continuo paragone con i poemi omerici, rimane sul piano assurdo e sofistico di ricerche di verisimiglianza e di decoro e molto spesso la difesa (che usufruisce di quella dell’ultimo Cinquecento cruscante) finisce per ammettere le accuse solo dimostrando trionfalmente che i difetti indicati eran maggiori in Omero! E ben diversa è la esaltazione del Tasso, tanto piú sicura e confortata dal consenso del tempo.

37 Udeno Nisiely [B. Fioretti], Proginnasmi poetici cit., vol. IV, p. 314.

38 Ivi, vol. IV, p. 290.

39 Ivi, vol. III, pp. 153 e 224.

40 Ivi, vol. III, p. 154.

41 L’attacco del Fioretti alla verisimiglianza ariostesca poteva giungere cosí fino a criticare da un punto di vista «idraulico» i bei versi del canto XVII, 19:

Per la città duo fiumi cristallini

vanno inaffiando per diversi rivi

un numero infinito di giardini [...].

«Questi fiumi dovean sopravanzar di altezza il piano della città, il che riesce impossibile perocché il letto de’ fiumi è molto piú basso della superficie di tutta la città. Come dunque irrigavano tanti giardini?» (vol. III, p. 334).

42 Ivi, vol. III, p. 188.

43 Ivi, vol. III, p. 375.

44 Ivi, vol. II, p. 117.

45 Il Croce cita una frase dei Proginnasmi sulla sconvenienza della pazzia d’Orlando e dice quindi che «non trovava grazia presso il Fioretti la pazzia d’Orlando» (Storia dell’età barocca, Bari, Laterza, 19462, pp. 197-198). Esatto rilievo quanto alla condanna della «pazzia» nell’economia del poema, ma in sé e per sé l’episodio della follia è proprio quello che piú colpisce e commuove il critico secentesco. «Ma il lamento di Orlando è tale ch’è impossibile a imitarlo. E tale che chi non sentirà intenerirsi, non avrà cuore; chi non piagnerà, sarà senz’occhi» (p. 209).

46 Udeno Nisiely [B. Fioretti], Proginnasmi poetici cit., vol. II, p. 208.

47 Ed era sostanzialmente sul motivo della forza emotiva in particolari situazioni drammatiche che si basava il giudizio favorevole e notevole per la sua rarità – per quanto sempre limitato da preoccupazioni di decoro e di continuità di ugual tono – di Niccolò Villani che, nelle Considerazioni di messer Fagiano sopra la seconda parte dell’Occhiale del Cavaliere Stigliano (Venezia, Pinelli, 1631), lodava l’Ariosto per la schiettezza sentimentale cosí diversa dalla ricerca secentesca del «pellegrino» e dello «spiritoso» che rendono spesso le composizioni marinistiche invece che «spiritose» «spiritate» (p. 12), («Non è già incorso l’Ariosto in questo difetto, anzi nel movimento delle passioni arbitro io che dei trovatori toscani egli sia il piú efficace», p. 21), e che, dopo aver messo in rilievo la sua capacità di evidenza sentimentale confrontando l’episodio di Olimpia abbandonata con quello ovidiano di Arianna (pp. 239 ss.), concludeva: «Io non leggo giammai le sventure di Olimpia e la disperazione di Zerbino e di Brandimarte, i lamenti di Bradamante e la disperazione del moribondo Ruggiero, ch’io non mi senta svegliar la corata dalle ultime radici e che, per molto che le reprima, possa dentro gli occhi le lagrime contenere» (p. 688). All’incomprensione barocca corrisponde un’uguale incomprensione e indifferenza del classicismo francese del Seicento dopo un grande favore all’epoca della Pléïade, e una singolare fortuna delle commedie (su cui si veda ora l’articolo di E. Bottasso, Le commedie di Ludovico Ariosto nel teatro francese del Cinquecento, «Giornale storico della letteratura italiana», 1951) e del poema, quando, secondo le parole del Lanson, «l’Arioste fut le Virgile et l’Homère des poètes et des courtisans du dernier Valois» (Histoire de la littérature française, 23a ed., p. 557). «Le siècle suivant constitue une lacune dans l’histoire de cette grande fortune, car la discipline classique n’est pas d’accord avec les conceptions du poète. Au XVIIIe siècle enfín, la poésie se dégage peu à peu de la sévérité des règles, et arrive à des conceptions plus libérales, qui rendent possible un retour en faveur du Roland Furieux» (A. Cioranescu, L’Arioste en France, des origines à la fin du XVIIIe siècle, Paris, Les éditions des presses modernes, 1939, vol. II, p. 190).